Qual è la tecnica psicoterapeutica junghiana?
Mi capita spesso che i pazienti o semplicemente curiosi, interessati alla materia, mi chiedano in cosa consiste e qual è la tecnica psicoterapeutica junghiana. La domanda ne nasconde altre due: qual è la teoria psicoterapeutica alla quale mi rifaccio e che differenze ci sono tra la psicoterapia junghiana e quella freudiana?
Per la verità mal sopporto queste comparazioni che rischiano di riportare la psicoterapia e in particolare la psicoanalisi ad una serie di fattori che hanno ben poca importanza: lettino o non lettino, si pagano o meno le sedute non fatte, quante sedute alla settimana e così via. Piccole cose, ornamento di un rapporto che invece si basa su dei presupposti teorici molto solidi.
Tecnica psicoterapeutica junghiana, quali differenze dalla freudiana?
Mi viene da rispondere: nessuna. Nessuna, se i parametri sono quelli sopra, quelli che poi chiamiamo setting. Non c’è alcuna differenza tra un setting junghiano e quello freudiano. A questo livello, le differenze ci sono da terapeuta a terapeuta indipendentemente dall’indirizzo teorico. C’è chi preferisce tenere il paziente in una posizione sdraiata che non guarda il terapeuta, chi preferisce il vis-à-vis, chi fa delle sedute da 45 minuti e chi da 60 ecc.
Però, ci sarà pure una differenza tra l’essere junghiano o non esserlo e, qual è?
Chiaramente la differenza è Jung, la sua psicoanalisi, il suo pensiero nei confronti della psicoanalisi di Freud o meglio, dopo Freud. Si perché, una cosa è certa ed ha avuto una ripercussione anche nella tecnica psicoterapeutica junghiana ed è che Jung, che aveva lavorato e collaborato con Freud dal 1906 al 1913 con reciproca e intensa stima, ha volutamente provocato la rottura pubblicando il suo libro: “Trasformazione e simboli della libido” (1912) poi rivisto nell’edizione definitiva del 1952 col titolo, “Simboli della trasformazione.”
Jung non rinnegava affatto tutta la teoria freudiana che si basava sulla sessualità e in particolare sulla necessità di conoscere e gestire le due grandi pulsioni: la libido e l’aggressività, come era verosimile la teoria della formazione dell’Io come esito di una continua operazione di contenimento delle istanze dell’inconscio da parte del super-io. Vero, tutto vero ma per lui tutto ciò descriveva poco, pochissimo rispetto la vera struttura psichica dell’uomo. Per Freud la struttura psichica dell’uomo è come la casa dove vive, la conosce poco, ci sono spazi che non frequenta, c’è una cantina, l’inconscio che contiene cose che non si ricordano più. Lo scopo della terapia: “diventare padroni a casa propria”. Per rimanere nella sua metafora, il mondo psichico, l’inconscio del paziente è limitato all’esperienza che lui ha fatto dal momento dell’esistenza personale ad oggi. Dice Jung, si la sua esperienza personale è importante ma, c’è un mondo “oltre la sua casa” di relazioni ma, soprattutto c’è “il cielo”, lo spazio infinito sopra di lui. C’è il suo bisogno di trovare un senso a questo suo stare come un granello di sabbia in un infinito di cui sente il respiro. L’uomo si sente parte del tutto senza tempo e ne cerca il senso. Per tornare alla tecnica psicoterapeutica junghiana, Jung porta all’interno dell’analisi la ricerca di quei simboli perenni e immutabili rispetto ai quali tutti da sempre ci rapportiamo con un’attrazione che supera ogni forza fisica: gli archetipi.
Qual è questa forza che ci attrae quasi a succhiarci dentro come in un “buco nero”? Tutta la letteratura religiosa, nella Bibbia dal Vecchio al Nuovo Testamento ma anche i classici antichi, da Omero fino alle “50 sfumature di grigio” raccontano il rapporto dell’uomo con gli archetipi che pulsano dentro di noi. Dice la Bibbia nella Genesi che Mosè sentì la voce di Dio che lo chiamava e lo spingeva a liberare il popolo schiavizzato e poi a salire sul monte Sinai per ricevere “la legge”. Ma come viene descritta questa Voce che chiama? Come un Dio che non si può guardare, pena morire. Il dio disse a Mosè: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!” (Es. 3. 5). In Omero, basta ricordare le sirene di Ulisse. Jung usa una metafora efficacissima, dice che noi stiamo ai nostri archetipi come la falena sta alla luce di una candela. Ne è irresistibilmente attratta ma rischia continuamente di bruciarsi le ali.
Oggi, quali archetipi pulsano dentro di noi? Gli stessi che spingevano e terrorizzavano Mosé e Ulisse. Non c’è differenza simbolica tra la cocaina, la droga, la dipendenza in genere e il richiamo delle sirene.
Tornando alla tecnica psicoterapeutica junghiana, Jung si accorge molto presto che una volta sistemata “la cantina di casa nostra”, cioè, una volta svelato l’inconscio personale, imparato a gestire le nostre pulsioni, la sessualità e l’aggressività che pur è complicato per tutti, si apre un mondo molto più complesso e ricco dal quale non possiamo prescindere: l’inconscio collettivo
L’esempio più bello che ho a proposito di questo passaggio è la storia di quel paziente che venne da me dopo un attacco di panico. Successivamente si scoprì che era “impotente” e non aveva mai fatto sesso con una donna. Sposato da 22 anni, la moglie era ancora vergine. Dopo un lavoro di terapia superò le difficoltà sia il sintomo dell’attacco che quelle sessuali tanto da diventare padre due volte. A questo punto si valutava assieme la possibilità di finire la terapia e lui fece un sogno. Sognò che entrava in una chiesa, il paziente si definiva agnostico, la chiesa era vuota, poco illuminata, ma lui sentiva il bisogno di fermarsi. Scese giù, in una cripta, era quasi buio e appena vedeva le sagome di cariatidi appoggiate ai muri che circondavano lo spazio centrale dove stavano un po’ di sedie. Si sedette e fece silenzio. Ad un certo punto senti un bisbiglio che si faceva sempre più netto di donne che parlavano tra loro. Si guardò in giro, non c’era nessuno ma lui continuava a sentire parlare. Alzò la testa e si accorge che erano le cariatidi che parlavano tra loro. Con una mano sfiorò il petto di una di loro e lo sentì muovere. Gli sembrava di sentire il cuore che batteva. Si svegliò.
Bellissimo, aveva avuto il coraggio di guardare oltre casa sua. Uscire dalla grotta, diceva Platone e venire a contatto con alcune parti archetipiche negate.
Tornando alla tecnica psicoterapeutica junghiana, quest’uomo finì l’analisi non quando mise incinta la moglie né tanto meno quando erano scomparsi gli attacchi di panico ma quando capi quale era la strada per la sua individuazione.
La sua individuazione che per me terapeuta, era assolutamente impensabile. Mai sarei riuscito a immaginare o proporgli un’immagine così bella come il suo sogno. Sapete cosa fa oggi quest’uomo? Oltre il suo lavoro che lo soddisfa molto, dedica tutto il tempo libero ad aiutare gli altri, soprattutto i bambini mettendo a disposizione oltre al tempo e le disponibilità economiche, le sue capacità tecniche. Ha fondando un ospedale pediatrico in Africa. Pensate che io avrei potuto immaginare questa evoluzione? Certo che no, ma io come terapeuta devo renderla possibile.
Il bambino non cresce perché il papà e la mamma lo fanno crescere, crescerebbe comunque. Il compito del padre e della madre è quello di permettere al bambino di diventare se stesso. Rendergli, quando è possibile, il sentiero un po’ più libero cercando, come diceva il Filosofo, di ascoltare e domandare con un’unica tecnica: la maieutica.
Video: La psicoterapia junghiana